Questa destra non ha nulla di meglio di Filippo Facci?

La "firma" di Libero è molto considerata da Meloni & co, ma in un Paese normale nessuno si sognerebbe di affidargli un programma

Filippo Facci
Filippo Facci (foto da Facebook)

Se l’Italia fosse un Paese normale, dell’esistenza di Filippo Facci sarebbero al corrente solo i suoi parenti più stretti, quelli che ad ogni pranzo di Natale lo manderebbero al “confino” alla fine della tavolata, lontanissimo dai bambini (che non devono sentire parolacce e volgarità…) e a distanza di sicurezza dai giovani fidanzati e dalle giovani fidanzate dei nipoti, per evitare brutte figure con altre famiglie. Starebbe lì, in disparte, a dialogare con panettoni e pandori dozzinali in attesa di essere scartati a fine pasto.

Il sessismo elevato a “opinione”

Ad onor del vero, in un Paese normale non esisterebbe neanche “Libero”, sfogliabile tristemente noto per i suoi scritti sopra le righe, i cui direttori sono stati recentemente condannati per aver titolato “La patata bollente” in riferimento all’ex sindaca di Roma, Virginia Raggi.

Filippo Facci è considerato una firma brillante e irriverente di di quello sfogliabile, un esponente di quella che dovrebbe essere la cosiddetta “cultura di destra”. Le numerose uscite sessiste del personaggio sono documentate da decine di articoli e sei si prova ad obiettare che le opinioni sono altro, si viene accusati di perbenismo e – nei casi più gravi – tocca sorbirsi paragoni improbabili con giganti del pensiero del calibro di Pier Paolo Pasolini. D’altronde lui stesso, in più occasioni, si è candidamente definito “sessista”.

L’Italia, purtroppo, non è un Paese normale. E lo diventa ancor meno quando a governarla arrivano gli esponenti di partiti che prendono i cosiddetti voti di pancia di quel popolino sovranello che periodicamente si autodistrugge votando quegli urlatori di turno e quei populisti che promettono mari e monti per poi lasciare il Paese sull’orlo della bancarotta.

La “cultura di destra”

E così, in questa italietta sempre più provinciale e isolata in Europa, Filippo Facci rischia di condurre un programma sul secondo canale della televisione pubblica, in una fascia oraria in cui accidentalmente dei minorenni potrebbero ascoltare le sue “opinioni” sul corpo delle donne e sul loro ruolo nella società. Chi oggi si impunta sul suo nome, malgrado l’ultima perla sul caso che vede coinvolto il figlio del Presidente del Senato, Ignazio La Russa, lo fa in nome di puro revanscismo.

Da quando sono al Governo, infatti, gli esponenti della destra ex-MSI non fanno altro che parlare di come vogliono scardinare la cosiddetta “egemonia culturale” della sinistra. Il loro obiettivo dichiarato è quello di portare la suddetta “cultura di destra” in quei luoghi in cui era sempre stata messa ai margini. È un progetto legittimo e persino legittimato da un voto popolare: l’estrema destra, pur rappresentando una minoranza degli elettori, in virtù delle insanabili divisioni del fronte opposto si ritrova, per la prima volta dalla caduta del Fascismo, a guidare il Paese da protagonista e non da stampella della buonanima di Silvio Berlusconi, che la sdoganò all’inizio degli anni ’90.

Non hanno di meglio?

Quello che stupisce, proprio in virtù di questa “fame di potere” di Giorgia Meloni e dei suoi, è che nella lunga “traversata nel deserto” non siano stati in grado di costruire un gruppo dirigente all’altezza della sfida per loro “epocale” (Santanchè, Delmastro, Sangiuliano, Donzelli…) e soprattutto non abbiano approfittato di tutti questi anni di opposizione per costruire un fronte di intellettuali e uomini di cultura adeguato all’inevitabile occupazione di posizioni strategiche.

Insomma, se la nomina di Alessandro Giuli al MAXXI aveva fatto sperare che il comparto cultura non diventasse il parco giochi di personaggi improbabili, ma che ad affiancare i personaggi improbabili ci saremmo trovati degli onesti intellettuali di area, i turpiloqui di Sgarbi e Morgan e la comparsa di Filippo Facci nei nuovi palinsesti Rai, ci riportano alla cruda realtà. Una realtà in cui a quello che era diventato uno stanco e autoreferenziale monopolio si oppone, quasi per ripicca, la parolaccia da bar sport, il rutto da osteria, l’umiliazione della donna pagata con i soldi dei contribuenti. Le aspettative non erano delle migliori, ma persino i più pessimisti forse si aspettavano qualcosa di meglio.